Gran Sasso d'Italia: la ferrata Ricci e la Vetta Orientale
"Quand'io fuoi sopra la sommità, mirand'all'intorno, parea che io fussi in aria, perché tutti li altissimi monti che gli sono appresso erano più bassi di questo ". Così nel 1573 l'avventuriero Francesco De Marchi raccontò la sua ascesa al Corno Grande, la prima volta che piede umano ne calpestò la cima.
A distanza di oltre quattro secoli da quella conquista il re degli Appennini ha forse perso quell'aura di invincibilità, ma mantiene inalterato tutto il suo fascino. Le pareti calcaree verticali che bucano il cielo e che nascondono il Calderone, quello che fu il ghiacciaio più a Sud d'Europa, e il contrasto che queste nude rocce hanno con i ricchi e verdeggianti boschi da un lato, e i pianori degni dei migliori film Western (e a dire il vero lo sono stati!) dall'altro, lo rendono un ambiente unico e capace di suscitare al tempo stesso meraviglia, ammirazione e reverenza.
Quella che noi intraprendiamo non è però l'ascesa alla cima principale, e quindi alla Vetta Occidentale del Corno Grande, bensì quella per la Vetta Orientale, che differisce per altitudine dalla prima di appena una manciata di metri.
Il percorso, occorre subito precisarlo, è di tipo alpinistico, e necessita sia delle capacità fisiche, sia delle conoscenze tecniche e pratiche sulla progressione in parete, nell'arrampicata su roccia e, naturalmente, sull'utilizzo dei vari presidi indispensabili quali corde, moschettoni, set da ferrata e imbraghi.
Lasciamo l'auto a circa 1.500 metri di quota, nella località dei Prati di Tivo, superando il paese di Pietracamela. Ci troviamo nel versante teramano del massiccio del Gran Sasso, dove oltre ai due Corni si scorgono altre imponenti vette, come quella di Monte Corvo (2.623 m s.l.m) e il Pizzo Intermesoli (2.635) più a est.
Un'ultima occhiata all'attrezzatura, agli scarponi (qui occorre usare almeno i semirigidi), un caffè e si parte, in direzione dell'ovovia, che con una traversata molto panoramica ci conduce alla località della Madonnina.
La nostra ascesa vera e propria comincia da qui, a poco più di 2.000 metri. La, dove molte montagne del Lazio e dell'Appennino finiscono, il Gran Sasso inizia. Il sentiero inizia a inerpicarsi tra sfasciumi calcarei e grandi blocchi di pietre. Alcune, staccatesi dalla grande parete, hanno finito con l'appoggiarsi l'una sull'altra, creando dei sottopassaggi che siamo obbligati ad attraversare.
Il tempo è buono ma alzando lo sguardo vediamo già cosa ci aspetta, perché un banco di nebbia si erge minaccioso e copre la punta della parete. Proseguiamo l'ascesa in direzione Sud-Est, e ci accorgiamo di guadagnare quota dal fatto di essere esposti da un lato, dove uno strapiombo vertiginoso cade a picco sulla vallata. Alcuni tratti sono facilitati dalla installazione di scale e corde d'acciaio, ma proprio per la delicatezza e l'esposizione di questi passaggi occorre tenere più che mai la concentrazione elevata, anche perché il terreno su cui poggiamo i piedi è quanto mai infido, ed è necessario scegliere con cura le rocce più stabili per progredire in sicurezza.
In un'ora di marcia a ritmo regolare e con i nostri zaini pieni di equipaggiamento sulle spalle, scorgiamo quello che è uno dei rifugi più alti del Centro Italia, il Franchetti, situato a oltre 2.400 metri. Qui facciamo una breve sosta, e veniamo prima accolti da un simpatico e bianchissimo pastore abruzzese, e poi dal gestore del rifugio, con il quale ci confrontiamo sulle condizioni meteo e delle vie ferrate. In particolare ci interessa la Via ferrata Ricci, che si inerpica verso Est in direzione della Vetta Orientale. "Questa notte non ha nevicato " ci risponde con tono sicuro "forse le rocce saranno bagnate perché la temperatura è salita e ha sciolto un po' di ghiaccio, però sulla Ricci sono porose e il grip è sicuro ". È proprio la notizia che stiamo aspettando, giusto il tempo per rifocillarci, prendere uno snack e approfittare dei servizi igienici (persino la vista dal wc esterno è panoramica e mozzafiato!) e rieccoci in marcia, in direzione Sud-Est per l'attacco alla ferrata Ricci, che raggiungiamo dopo uno stretto sentiero tutto sommato abbastanza comodo.
Le vie ferrate sono dei sentieri attrezzati, in cui si progredisce con l'aiuto di corde fisse, e scale, d'acciaio e di ferro appunto, e nelle quali l'escursionista si assicura mediante un imbrago e un set composto da un dissipatore e doppi moschettoni agganciati a corde o fettucce. Il set da ferrata viene assicurato a sua volta all'imbrago mediante un nodo a bocca di lupo. A completamento dell'equipaggiamento occorre un casco omologato e, naturalmente, scarponi con suola VIBRAM e climbing zone, oltre a guanti d'arrampicata per migliorare il grip sulla roccia, e occhiali con protezione uv per il sole, che oltre i 2.000 metri si fa sentire. Sono sempre precedute da una cartellonistica specifica, di colore rosso, che precisa che si tratta di un sentiero EEA, ovvero per escursionisti esperti con attrezzatura. È poi specificato il livello di difficoltà, che viene riportato nelle due scale alpinistiche principali, quella Walzenbach (livelli da I a VI) e quella italo-francese (livelli da F, facile a ED+, estremamente difficile).
La ferrata inizia con una ripida salita, e per superare questo tratto occorre far forza con le braccia e usare gambe e piedi come appigli. Dopo un inizio un po' esitante prendiamo rapidamente confidenza con la progressione a corda fissa, nonostante occorra di volta in volta togliere e riagganciare i moschettoni al cambio di ogni passante della corda d'acciaio (e questo è anche il motivo per cui il set di sicurezza ne prevede due: mai sganciare il secondo se il primo non è stato messo in sicurezza!).
La salita prosegue, costante, senza sosta, mentre sotto di noi l'abisso è coperto da nubi impenetrabili
Adesso è più facile da qui capire cosa intendesse il De Marchi mentre descriveva la sua prima ascesa.
Improvvisamente la ferrata devia bruscamente verso Est, la progressione è ora orizzontale ma la parete è ripida, esposta, e alcune rocce sono effettivamente ancora bagnate dal ghiaccio sciolto della notte. Facciamo affidamento sul cavo d'acciaio e sulle nostre braccia, mentre i piedi cercano l'appoggio sicuro passo dopo passo.
Raggiungiamo infine uno sperone calcareo, dove termina la via ferrata. Sganciamo i moschettoni, e da questo momento in poi, l'ascesa prosegue in arrampicata, con passaggi che arrivano al III livello. Ora lo strapiombo è da ambo i lati: ad Ovest verso il ghiacciaio del Calderone, ad Est lungo l'altissima e verticale parete che guarda verso l'autostrada dei Parchi e il mare Adriatico, in un vuoto di almeno 600 metri che solo le nuvole riescono a nascondere. La tensione è al massimo, la concentrazione mentale ci toglie le stesse energie dello sforzo fisico, quando ecco con un ultimo sforzo raggiungere lo sperone che ci separa dalla croce di vetta. La Vetta Orientale del Corno Grande è "nostra", dai suoi 2.903 metri si contempla tutto l'arco appenninico, in un susseguirsi di vette: il Corno Piccolo, spostato più a Sud, il Mare, a Est. Vicino alla croce una targa del Club Alpino Italiano in onore ai "Caduti della montagna e per la montagna " ci ricorda che questi luoghi incantevoli esigono il massimo rispetto, la massima umiltà da parte di chi li scala, e che quassù l'essere umano, in balia dei più potenti elementi della natura, può contare solo sul suo intelletto e sulla sua capacità di cooperazione.
La nostra permanenza in vetta non dura molto. Il sole è già allo zenit, anche se la nebbia inizia a prendere il sopravvento sul paesaggio, e la discesa si preannuncia lunga e, soprattutto, impervia e difficoltosa.
Ragioniamo, cartina alla mano, sulla via migliore per ridiscendere. Le opzioni sul tavolo sono due: un tratto di ferrata, che gira intorno alla parete orientale portandoci sulla sella del Calderone, oppure una via più rapida, ma anche più esposta, più ripida e senza corde fisse. Decidiamo per la prima opzione, perché la concentrazione e le energie iniziano a venir meno.
Giunti sulla sella la discesa continua, alternando camminata su sfasciumi rocciosi di tutte le dimensioni, e passaggi di disarrampicata, alcuni abbastanza delicati.
Nel frattempo la nebbia ha completamente plasmato il contesto intorno a noi: rocce, neve e cielo sembrano avere lo stesso identico colore, e confondersi tra loro. E la confusione incide anche sul nostro percorso: ci mettiamo quasi dieci minuti per renderci conto che il sentiero imboccato ad un quadrivio in realtà non scende, ma ricomincia a salire! Siamo per un attimo disorientati. Prendiamo nuovamente la cartina in mano, la bussola, usiamo le poche eregie residue per concentrarci e ragionare in quel reticolo grigio fatto da miliardi di minuscoli cristalli, mentre le lancette dell'orologio incalzano, e con loro il tempo di luce utile. Questa volta la nostra cooperazione ha la meglio sulla nebbia, torniamo sui nostri passi e ritroviamo il sentiero che scende.
La camminata in discesa su questo terreno è a dir poco estenuante, i passaggi difficoltosi si avvicendano in un continuo mettere alla prova i nostri muscoli e i nostri nervi, e quando dalla fitta nebbia scorgiamo nuovamente la sagoma del rifugio Franchetti, siamo risollevati.
Pochi convenevoli con i gestori, per ringraziarli delle preziose informazioni della mattinata, ci congediamo da loro e dal rifugio mentre vediamo venirci incontro un altro gruppetto di scalatori. L'ora è tarda, probabilmente pernotteranno per tentare l'ascesa la mattina seguente.
Noi invece continuiamo a scendere. Percorriamo a ritroso la scala fissa di ferro, e sulla via del ritorno un'ultima inaspettata sorpresa: una mandria di camosci appenninici che pascolano proprio davanti a noi. Sembrano creature di un altro mondo, generate dalla nebbia e dalle rocce, e che con esse quasi si confondono.
Vorremmo rimanere ancora un po' in contemplazione di questi splendidi guardiani della montagna, ma il tempo è tiranno, e con passo accelerato riusciamo a raggiungere l'ovovia prima della chiusura, e tornare così a Prati di Tivo, alla macchina, e ad una sensazione quasi dimenticata: quella di una terra stabile sotto i piedi!
Il percorso descritto in questo articolo è riservato esclusivamente ad escursionisti esperti muniti delle apposite attrezzature per la progressione in ferrata e con corda. Se non rientrate in questa categoria di escursionisti non prendete minimamente in considerazione l'idea di intraprendere un trekking di questo tipo e, anche se lo siete, non fatelo MAI da soli...la vita è un bene troppo prezioso e insieme si dividono non solo le difficoltà tecniche, ma anche le paure!
Per informazioni ulteriori sulla sentieristica e per imparare a riconoscere i segnali CAI con i relativi livelli di difficoltà consultate pure l'articolo dedicato su questo sito web
https://www.trekway.it/leggere-i-sentieri
Scheda tecnica
Livello di difficoltà : EEA- PD/II-III grado
Distanza percorsa : 12 km
Tempo : 7h 45'
Dislivello assoluto : 1.370 m
Quota massima : 2.007 m s.l.m
Quota massima : 2.903 m s.l.m
Terreno : pietra, neve, ghiaccio
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